Bacco, tabacco e Venere riducono l’uomo in cenere”, recita un vecchio proverbio, attribuendo alle donne la stessa pericolosità di un vizio tanto irresistibile quanto mortale. Niente di nuovo se si considera che già nell’antichità classica le varie Veneri ed Afroditi erano considerate creature amabili eppure terribili proprio a causa del loro fatale fascino. Insomma: ieri come oggi, le donne sono croce e delizia nella vita di ogni uomo.

Ma come sono, invece, le donne viste dalle donne? E cosa succede quando il divino “Bacco” lascia posto ai vertiginosi tacchi che indossiamo per praticare il vizio − questo sì irrinunciabile − della femminilità? Quello che accade invertendo il punto di osservazione − le opere di Rosalind Keith lo confermano −, è capire che la parola “donna” al singolare è un’aporia, un falso storico, un’errata convenzione linguistica: il femminile ha senso soltanto se declinato al plurale.

A ciascuna la propria storia e un modo diverso di raccontarla, perché “diventare donna” è un’esperienza irriducibile ad uno schema. Siamo “una” e “tante” allo stesso tempo, ogni cosa e il suo esatto contrario; esempi in carne ed ossa del rompicapo numero uno dei filosofi: la coincidenza tra gli opposti.

Queste siamo, nel bene e nel male, e come tali ci vediamo rappresentate nei dipinti di Rosalind Keith: sempre protagoniste, mai comprimarie né comparse, di un racconto per immagini che alterna tinte forti a colori pastello.

Un mondo popolato di dark lady che vedresti bene nel jazz club di un romanzo noir mentre, dall’alto dei loro tacchi a spillo, spandono nell’aria fumo di sigaretta e sguardi impenetrabili come quelli di una sfinge. E ancora: Veneri in pelliccia che, esperte spadaccine, brandiscono la sottile arma della seduzione offrendo i loro corpi nudi e voluttuosi al voyerismo dell’osservatore.

Ma non sarebbe una narrazione esaustiva se a tanta spudorata sensualità non facessero da controcanto la fisicità senza malizia delle “donne hula hoop” − adulte ancora un po’ bambine che conservano il sapore dei giochi infantili − e i corpi quasi immateriali delle figure immerse in un’ambientazione fiabesca.

Un percorso che vede camminare insieme, mano per la mano, paladine dell’emancipazione femminile e principesse romantiche, sognatrici e maliarde, mostrando come attitudini tra loro distanti siano invece tessere di un unico variegato mosaico qual è appunto l’universo femminile.

C’è un principio dinamico in tutto questo, un incessante divenire di passioni, idee, ruoli, perché in un mondo che cambia di continuo, la donna deve prendere parte al cambiamento per non esserne esclusa.

Sarà per questo che le donne di Rosalind sono sempre in movimento, anche quando sembrano abbandonarsi pigramente al divano: come un compasso, i loro corpi disegnano lo spazio intorno con lunghe gambe da fenicottero, braccia ad angolo acuto e chiome a punta.

Ma la donna, si sa, è un teorema non dimostrabile, un sistema cartesiano dove ascisse e ordinate non s’incontrano mai. E’ il mistero senza soluzione messo in scena da Rosalind con grazia ed ironia, affidando agli occhi delle sue “creature” − occhi da madonne bizantine − il compito di custodirlo.

Critica d’arte laureata in storia dell’arte
Daniela Pronestì